giovedì 3 dicembre 2009
venerdì 9 ottobre 2009
martedì 29 settembre 2009
il Giacomaccio
Giacomo Preti da Boccioleto: temperamento focoso e cuore generoso
il Giacomaccio
Dalla rissa all'osteria di Varallo agli Statuti Valsesiani
“Uomo di carnagione bianchissima, alto e tarchiato nella persona, sicchè popolarmente veniva chiamato il Giacomaccio. Avendo militato per Francia, trovossi alla battaglia di Melegnano, ed aveva preso un fare soldatesco e prepotente.” Questa la decrizione che Federico Tonetti, nella sua “Storia della Valsesia”, offre di Giacomo Preti da Boccioleto, più o meno coincidente con quella di un altro storico valsesiano, Pietro Galloni. Ma chi era veramente?
Nato intorno al 1480 in Boccioleto da una famiglia piuttosto in vista, tanto da essere citata nello statuto del 24 agosto 1305 fatto a Scopa contro Dolcino, Giacomo Preti, tanto per non smentire l'origine valsesiana, prende ben presto la via della Francia in cerca di fortuna. Probabilmente non ha ne arte nè parte: l'unica carta che può tentare di giocare è quella del fisico aitante, per cui non gli è difficile farsi accogliere in un esercito, abbracciando così la carriera militare. Partecipa alla battaglia di Melegnano (13 – 14 settembre 1515) in cui viene fatto prigioniero dai Francesi Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro. Non è dato di sapere quale grado abbia raggiunto nella vita militare, ma la tradizione riporta quello di capitano. La cosa certa è che i suoi modi rudi, la postura decisa al limite della strafottenza, la voce avvezza a sbraitare ordini contribuirono, insieme alla massiccia corporatura, ad alimentare la fama del soldataccio sbrigativo e truculento. Un'immagine che forse in altre zone non avrebbe deposto completamente a sua favore, ma che in terra di Valsesia, dove Giacomo Preti aveva deciso di tornare a riposare le stanche membra, gli era valsa notevole considerazione e rispetto: una gloria nazionale, insomma. E lui non se ne adontava affatto, anzi soffiava sul fuoco a ogni occasione magnificando le proprie gesta, quando con una certa frequenza veniva invitato ad abbondanti banchetti e libagioni in suo onore, proprio per sentir raccontare dalla viva voce del protagonista imprese al limite dell'immaginabile. Sicchè anche l'appellativo di “Giacomaccio” tornava utile per incutere un certo timore reverenziale e contribuiva ad alimentare la fama dell'uomo duro e puro, senza macchia nè paura che era meglio avere come amico che nemico. Il personaggio, insomma, incontrava il favore del pubblico dell'Alta Valle, incline alla rudezza dei modi e alle “maniere ardite e franche”. Possiamo immaginare quanto l'alone della leggenda tornasse gradito pure al nostro che ormai era perfettamente conscio di essere entrato nei cuori dei compaesani e degli abitanti dei villaggi vicini. La sensazione della invincibilità e la consapevolezza di poter fare il bello e il brutto tempo, senza dover dare troppe spiegazioni, sfociarono ben presto in un atteggiamento prepotente che non ammetteva repliche.
Non la pensavano allo stesso modo i Varallesi con i loro vicini, cioè i consiglieri dei paesi intorno a Varallo che in pratica detenevano il potere decisionale impedendo ai consiglieri dell'Alta Valle di difendere i propri diritti e le proprie ragioni. Una questione di Maggioranza e Minoranza, di Governo e Opposizione, insomma, dove se non hai i numeri, non c'è verso di far passare una minima proposta.
Un giorno Giacomaccio, sceso a Varallo, stava discutendo con alcuni dei vicini in un'osteria su argomenti di pubblica amministrazione. Abituato a incutere rispetto e timore, quando alzò la voce si trovò di fronte alla decisa replica degli interlocutori. La qual cosa gli fece saltare la mosca al naso e passò alle minacce, perdendo le staffe e proferendo chissà quali parole. Varallesi e vicini lo mandarono a stendere senza tanti complimenti, dimostrando di non tenere in alcun conto le passate gloriose gesta dell'eroe di Boccioleto, anzi insolentendolo oltre ogni limite. Non avvezzo a quel genere di trattamento, il Giacomaccio se la legò al dito e decise che l'avrebbe fatta pagare cara ai Varallesi quell'onta che aveva dovuto subire in una pubblica osteria.
Tonetti dice che in parte spinto dalla vivacità del suo carattere, in parte dall'amore del pubblico bene e molto di più dall'astio, che lo rodeva, si mise segretamente a tessere le fila di una estesa e ben ordinata congiura con i capi e i principali uomini degli altri paesi. Uno di costoro era Giovanni Pietro Vinzio di Valduggia, suo parente, che avrebbe dovuto assalire Varallo da sud, mentre Giacomaccio coi suoi l'avrebbe attaccata da nord.
Predisposti i piani di assalto a Varallo, una domenica mattina, alla fine della messa, Giacomaccio salta sul tavolo di pietra che sta davanti alla chiesa di Boccioleto e che serviva a rendere pubblici gli ordini del consiglio comunale, e si mette ad arringare la folla con “soldatesca baldanza” parlando di patria in pericolo, del dovere di pensare alla sua salvezza, dell'infedeltà dei vicini di Varallo tendenti a imporre una sorta di tirannide a scapito dell'Alta Valle, della loro cupidigia e della manifesta volontà di arrogarsi ogni potere privando il popolo dei normali diritti, di volere esautorare il Consiglio Generale della Valle imponendo il loro punto di vista senza ascoltare i consoli dei paesi di montagna e i sindaci delle valli; sostiene che non si può più essere ingiuriati e subire le angherie come capitato a lui medesimo e che viveri e granaglie destinati ai montanari siano intercettati. Era giunta l'ora insomma della riscossa e di liberare il paese dal malgoverno di gente perfida e litigiosa. L'ora della Giustizia chiamava ad armarsi e a partire contro Varallo.
L'eco del comizio del Giacomaccio corse per tutte le valli e ognuno era convinto d'aver subito quelle ingiustizie: occorreva vendicarsi. Ben presto Giacomaccio si ritrova con un esercito di circa duemila uomini disposti a seguirlo. Si avvia alla volta di Varallo e il 18 ottobre 1518 giunge a Vocca e Valmaggia. Pone l'accampamento e col favore della notte e con un centinaio di uomini si spinge fino al ponte di Varallo, ma le campane dànno l'allarme e i Varallesi reagiscono respingendo gli assalitori. Visto fallito l'intento di penetrare nell'abitato, forse frustrato, ritirandosi appicca il fuoco ad alcune abitazioni di Varallo Vecchio. Raggiunge gli accampamenti e rimane per due giorni in attesa di notizie del Vinzio che doveva giungere dalla bassa valle. Nel frattempo i Varallesi, riavutisi dalla spiacevole sorpresa, cercano di riorganizzarsi e corrono ad armarsi ricuorandosi a vicenda, perchè il timore non è ancora passato e la consistenza del nemico non è nota. L'incertezza regnava sovrana. Il Santuario, in quel periodo in costruzione, diventa meta di pellegrinaggi e processioni votive. Insomma, non si sa quali pesci pigliare.
A questo punto vale forse la pena ricordare che il Fassola ci racconta un aneddoto che tenderebbe a ridicolizzare tutta l'impresa dei Valligiani contro Varallo. Mentre fervevano i dibattiti sul modo più opportuno di intervenire, una vecchierella propose un “singolare stratagemma” per liberare dal pericolo incombente la città. Si radunarono dalle terre circostanti tutte le capre e le pecore che fu possibile; attaccate delle micce alle corna e alla testa degli animali, li condussero in vari branchi su per i boschi di Valmaggia. Scesa la notte, mentre gli uomini del Giacomaccio riposavano, dato fuoco alle micce, spinsero le greggi giù per la montagna incalzandoli con urla serlvagge e sparacchiando all'impazzata. I Valligiani destati improvvisamente dal sonno, si videro assaliti da tutti quei fuochi che sembravano altrettanti archibugieri forsennati. La fuga fu inevitabile in un caos indemoniato e, dice il Fassola, “nè si fermarono che alle case loro”. Il giorno dopo, incontrandosi, si raccontavano l'un l'altro il grande pericolo scampato, ma quando si svelò la verità, quegli uomini arditi che avevano osato attaccare Varallo, non vi credettero. Ma quando l'inconfutabilità degli eventi apparve in tutta la sua beffa, l'ira e la vergogna montarono talmente che avrebbero ripreso volentieri le armi e l'impresa, se nel frattempo non fosse giunta notizia che il Vinzio era stato sbaragliato alle porte di Varallo.
Stemperati i bollenti spiriti, abbandonato ogni desiderio dei vendetta, Giacomo Preti si dedicò per il resto della vita al bene della patria. Dice Galloni: “ Svestita la tunica del guerriero, indossò la toga del magistrato; cuoprì molte onorevoli cariche e fu tra quei Deputati che chiesero e ottennero dal Duca di Milano Francesco II Sforza-Visconti vantaggiosissima ampliazione dei capitoli agli Statuti Valsesiani”.
Al Sacro Monte, nella cappella detta del Calvario, tra i formidabili personaggi ritratti da Gaudenzio Ferrari, potrebbe essere individuabile il Giacomaccio. Uso volutamente il condizionale perchè è solo un'ipotesi, una bella ipotesi.
Alla ricerca dei personaggi negli affreschi del Sacro Monte
Sono davvero rappresentati nelle opere dei Maestri che lavorarono alle cappelle? Oppure sono solo dicerie?
Abbiamo intervistato in proposito alcuni di coloro che si sono dedicati alla Storia e all'Arte della Valsesia. Non esistono elementi che comprovino la certezza dei ritratti, solo ipotesi.
Prof. Giacomo Gagliardini
L'attenzione si concentra sulla Cappella n° 38 del Sacro Monte, quella della Crocifissione. Intanto, se fosse comprovata la raffigurazione dei personaggi storici valsesiani quali Giacomo Preti e Alberto Giordano, bisognerebbe chiedersi se stiamo parlando solo degli affreschi oppure se prendiamo in esame pure le sculture, perchè non è detto che esista anche tale possibilità. Non c'è alcun riferimento ben definito che riguardi i ritratti, sono solo “si dice”, delle ipotesi, belle ipotesi, su cui si potrebbero aprire degli approfondimenti. Da un punto di vista storico, se la vicenda del Giacomaccio è databile al 1518 e Gaudenzio Ferrari ha lavorato alla cappella fino intorno al 1520, potrebbe anche starci che in omaggio al personaggio si sia voluto dedicare una specie di ricordo, ma si può anche ritenere che il lasso di tempo intercorso tra le imprese di Giacomo Preti e l'esecuzione del dipinto sia troppo breve per dover consegnare alla memoria dei posteri una raffigurazione epica: in sostanza il Giacomaccio era ancora vivo e vegeto, operante nell'Alta Valle, per entrare a far parte di una certa “mitologia valsesiana”. Senza considerare che i Varallesi non avevano proprio niente da celebrare di un personaggio che, nel corso della sua vita pubblica, mai aveva fatto mistero di come la pensasse su di loro e che, anzi, aveva costituito un serio pericolo per la città fino ad appiccare il fuoco a una parte di essa. Venendo agli affreschi è un problema individuare la porzione dedicata a detti personaggi. Perchè quelli sulla parete accanto all'entrata, piuttosto che non quelli sulle pareti laterali, se non su quella di fondo? Soltanto Gaudenzio Ferrari in persona avrebbe potuto toglierci dall'imbarazzo lasciando una descrizione della rappresentazione, ma non c'è. E allora tutto diventa interpretabile a seconda di ciò che si vuol dimostrare o sostenere. Diciamo che è bello pensare che l'artista abbia voluto ritrarre dei personaggi balzati all'onore della cronaca negli anni in cui era tornato a lavorare al Sacro Monte. Sia del Giacomaccio come di Alberto Giordano abbiamo delle descrizioni sommarie tracciate dal Tonetti che a sua volta le deve avere desunte dal Lana: entrambi vengono definiti di grande corporatura, robusti e chiaramente in contrasto con lo stereotipo del Valsesiano medio, quindi qualsiasi figura degli affreschi che sovrasta le altre, potrebbe essere quella che ci interessa. Ma continuiamo a restare nel vago.
Dr. Gabriele Federici
“Non ho studiato nel dettaglio la materia, quindi esprimo un parere del tutto personale, basandomi su supposizioni storiche, per altro già enunciate da altri. I committenti delle cappelle erano in prevalenza notabili di Varallo. Gli avvenimenti imputati a Giacomo Preti e ad Alberto Giordano erano ancora piuttosto freschi nelle menti di questi notabili e nel popolo varallese, ragion per cui mi torna difficile accettare che personaggi, immagino esecrati nel giudizio comune, siano stati immortalati da Gaudenzio proprio nella cappella 38. In più, ritratti in atteggiamento da saggi, con un'aura ieratica, quasi santificante. Storicamente saremmo di fronte a una paradossale interpretazione di fatti e personaggi. Oppure si potrebbe supporre che Gaudenzio, influenzato da quei recenti accadimenti, con una certa inclinazione da cronista (poco probabile, però) abbia voluto ricordare i protagonisti degli attacchi alla città. Ma questi costituivano un aspetto molto negativo, quindi non mi spiego la serafica espressione di cui sono dotate le figure che occupano le pareti della cappella. Quindi propendo per la versione della diceria che non so da dove tragga origini. Si tratta comunque di una versione popolare che conserva un certo fascino, ma storicamente e artisticamente non sta in piedi”.
Prof. Casimiro Debiaggi
Avendo dedicato parecchio del suo tempo a studiare il Sacro Monte e a scriverne, il prof. Debiaggi propende decisamente per la teoria della diceria. Il proliferare delle innumerevoli “guide al Sacro Monte” che sono state date alle stampe nel corso dei secoli sono, nella sostanza, una copia l'una dell'altra. Le fonti di ispirazione e di ricerca sono le precedenti; ora ci si può imbattere in un autore che conosca, oppure approfondisca maggiormente un argomento rispetto a un altro, ma differenze fondamentali tali da costituire un documento originale, preciso e dettagliato non ne ha mai trovate. Alla fine sono tutte, più o meno, delle ripetizioni. A ingigantire la leggenda dei ritratti del Giacomaccio, di Alberto Giordano e del Vinzio ha indubbiamente contribuito lo storico Fassola che ha voluto individuare quei personaggi sulle pareti della cappella 38. Come del resto ne ha individuati altri, dall'imperatore Carlo V al nobile novarese Tornielli. Dal Fassola in poi è stato tutto un divulgarsi di false, o fantasiose, interpretazioni. Anche il prof. Debiaggi sostiene che i notabili varallesi, committenti dell'opera, non avevano proprio nulla da far celebrare riguardo a personaggi che, invece, avevano recato dànno e pericolo alla città. Non esistevano, insomma, le premesse affinchè Gaudenzio immortalasse, tra tante figure, proprio quelle che avevano da poco rappresentato una minaccia alla stabilità del governo cittadino e della valle. Pur riconoscendo al Fassola una straordinaria vicinanza nel tempo agli eventi (infatti scriveva nel secolo successivo agli avvenimenti storici riferiti a Giacomaccio e Giordano, quindi nel 1600), la logica ci dice che dovette avvalersi anche lui, Fassola, di fonti piuttosto approssimative e non basate su testimonianze dirette, il che rende aleatoria qualsiasi interpretazione. In sostanza siamo al cospetto di una bella favola, intrigante e compatibile con gli affreschi di Gaudenzio, ma pur sempre una favola.
Dr.sa Elena De Filippis
In qualità di storico dell'Arte e, soprattutto, di Direttore del Sacro Monte, Elena De Filippis pare in netta controtendenza rispetto ai pareri espressi più sopra. Il testo di Giovanni Battista Fassola non solo è veritiero, ma indica con precisione i personaggi raffigurati. Ci vien fatto notare che le figure sulle pareti laterali non hanno alcunchè in comune con quelle sulla parete di fondo, una perfetta continuazione della scenografia “scolpita”. Cioè: la parete di fondo, secondo De Filippis, si amalgama perfettamente con le sculture in primo piano, come se si trattasse di una sola, grande scenografia. Le pareti laterali sono servite a Gaudenzio per affrescarvi altri temi, altri personaggi, ma fuori dal contesto narrativo della crocifissione. Potremmo dire, oggi, una sorta di spazio riservato alle dediche. E in quegli spazi Gaudenzio ci ha messo i personaggi suoi contemporanei ad assistere allo spettacolo della morte di Cristo, quindi non con funzione di “partecipanti alla scena”, ma di “spettatori”. Scontati dunque quelli che l'attualità del tempo considerava protagonisti d'ufficio e i maggiorenti della comunità, è plausibile che Gaudenzio avesse dato spazio a personaggi della cronaca locale, raggruppati nella parete a sinistra della bussola trasparente, posata per facilitare la visione intera della cappella. Così Giacomaccio, Giordano e Vinzio, armati di archibugio o in procinto di caricarlo, osservano la scena dallo stesso punto di vista del visitatore, irsuti nelle loro capigliature e barbe biondo-rossicce, nell'atto di “portare” la minaccia. Secondo l'interpretazione di Elena De Filippis, dunque, lo storico Giovanni Battista Fassola non è affatto l'origine di tutti i mali, cioè delle dicerie che hanno imperversato lungo cinque secoli, ma una fonte di notizie che ha una sua valenza pure sul piano storico-cronistico della valle. Così come Gaudenzio che, contemporaneo dei tre capi-popolo, può anche essere che li abbia visti, o quanto meno che se li sia fatti descrivere in modo da poterli raffigurare in atteggiamento tutt'altro che remissivo e tranquillizzante. In perfetta sintonia con la loro nomea. Ma si tratta, sottolinea De Filippis, soltanto di una supposizione, perchè non esiste nulla che comprovi le ipotetiche intenzioni di Gaudenzio in proposito. Anzi il Direttore della Riserva del Sacro Monte precisa di non credere affatto alla diceria... è una bella diceria e basta.
G. Bobbio
lunedì 28 settembre 2009
Brian Auger, la Leggenda

Intervista al famoso tastierista, in concerto a Varallo per l'Alpàa
Mi viene incontro caracollando risalendo le file di poltroncine del Civico. Si asciuga rivoli di sudore che, nonostante la bufera che tira fuori sulla piazza scaraventando qua e là cartelli e teloni, gli solcano il viso. L'aspetto non è dei più tranquillanti, anzi sarà la fama che lo precede o l'atmosfera che ci circonda, ma mi pare di dover affrontare un orso. La P.R. che ha predisposto l'incontro è agitata e un po' timorosa. Perfino l'amico Barons, inossidabile fan di Mr. Auger dalla notte dei tempi, mi trasmette l'emozione di trovarsi al cospetto del suo mito. Mi stringe la mano e mi indica un tavolino appartato in una saletta laterale del foyer. Forse percepisce la mia inquietudine e allora si allarga in un sorriso solare, di incoraggiamento. Scambio una rapida occhiata con Barons al quale ho rifilato la macchina fotografica con l'ordine (ordine?... meglio “supplica”) di immortalare l'evento e comincio a trafficare con il registratore con il segreto timore di venire fermato, nell'una e nell'altra operazione, da Mr. Auger. Invece Lui, Brian Auger in persona, non fa una piega e chiede come deve mettersi. Gli faccio gli auguri di buon compleanno, dato che compirà giusto settant'anni il giorno dopo. Ringrazia in italiano, stupisco e glielo dico. Il Mito si diverte a ricordare la sua prima discesa qui da noi, nella penisola: era il 1956 e da studente, essendo alle prese con latino e italiano da perfezionare, era sceso fino a Napoli in treno per poi risalire lungo la costa e la Francia in bicicletta tornando in Inghilterra per compiere, da buon anglosassone, uno di quei “riti di passaggio” tanto cari ai letterati dell'Ottocento. “Sono stato in collegio e là la mia cultura ha preso una piega classica e umanistica. Il Latino come lingua mi ha fatto scoprire nel vostro Paese quell'elemento mediterraneo fatto di ospitalità, di gentilezza e di allegria che nel mondo anglosassone, così riservato e composto, è impossibile trovare.”
Rinfrancato dalla disponibilità di Mr. Auger gli faccio notare che nei ruggenti Anni 60, il periodo che ha visto nascere le stellari leggende dei Beatles, dei Dylan, degli Hendrix, il suo nome veniva accostato a quello di un altro tastierista eccelso, Kheit Emerson: ma già all'epoca la sua fama era a livello mondiale. A sottolineare l'apprezzamento allungo la mano a sfiorargli la spalla manifestandogli l'intenzione di toccare “veramente” un mito. Scoppia in una risata che copre il fragore della bufera: “Non immaginavo di girare il mondo con questa professione. Sono autodidatta e ho cominciato a suonare a tre anni. Il mio papà aveva una pianola, di quelle con il rullo di carta e le note che muovevano i tasti, poi io ripetevo. Avevamo un grande armadio pieno di dischi e spartiti di grandi autori, da Behetoven a Rossini... Rossini mi piaceva moltissimo (e mi accenna un'aria strimpellando con le dita sul tavolo, sotto i miei occhi, parlandomi di ottave e chiavi musicali..., a me che, pronunciare “bemolle” fa venire in mente tutt'al più una disfunzione sessuale), e posso dire che ha sviluppato in me il senso dell'armonia. E poi il mio fratello più grande (vengo da una famiglia di sei fratelli) aveva una collezione di dischi jazz, le mie sorelle avevano quelli di Nat King Cole, di Bing Crosby, di Frank Sinatra... Però a me affascinava il Jazz.”
Non fa mistero di avere tratto ispirazione da tutti i grandi della musica, da Gleen Miller a Lionel Hampton, da Benny Goodman a Duke Ellington. Anzi, proprio un disco di Ellington riascoltato innumerevoli volte, lo portò alla convinzione di dover trasmettere al pubblico “l'essenza del sentimento”. “Se chi ti ascolta non capisce tanto vale suonare in casa, al chiuso. Io ho cercato di capire e questo mi ha permesso di andare a ritroso, di andare a miscelare rock and roll e boogie col jazz, alla ricerca di un'armonia che trasmettesse qualcosa negli ascoltatori. Questo lo abbiamo sperimentato con i Trinity e con la voce di Julie Driscoll, eravamo negli Anni 70. Julie si ispirava a Nina Simone... Mi ricordo di avere visto un'intervista al grande Duke Ellington dove gli chiedevano quale genere di musica preferisse e lui rispose che conosceva solo due tipi di musica: quella buona e quella non-buona. Io spero di fare, e di avere fatto, solo musica buona.”
Di Mr. Auger si conoscono innumerevoli collaborazioni di altissimo livello, anche con nostri artisti italiani (Mina, Morandi e ultimamente Zucchero. Lui trova straordinariamente bravo Pino Daniele), ma quando gli chiedo di raccontarmi qualche episodio della sua fantasmagorica vita di scena, non ha esitazioni e, mentre Barons fa lampeggiare il flash come un forsennato, mi parla del primo incontro con Jimmy Hendrix. “Avevo già predisposto il complesso per una serie di concerti a Londra, dove volevo sperimentate questo concetto di miscuglio tra jazz e rock. Un amico mi propone di far esibire con noi Hendrix, anche se il suo manager non andava d'accordo con il nostro, ma il suo era un tipo strano perchè poi ho avuto ragione dato che gli ha fregato un milione. Comunque, la prima sera, arriva Jimmy sul palco, ci salutiamo e gli chiedo se vuol suonare con noi, lui dice di sì e mi chiede se posso fare un accordo come quello che mi accenna. Mai sentito, nè provato prima. Facciamo il pezzo e alla fine Eric Clapton, che era con me, mi dice “Sentito questo, cosa ci sto a fare qui? Per me è finita. Meglio che vado a casa”... Capito? Clapton voleva stracciare gli spartiti! Tieni presente che tutti questi chitarristi inglesi, questi bluesmen, sono strettamente legati alle loro radici, ma con Jimmy, con quella sua voce..., mai sentito niente del genere...Siamo stati grandi amici, fino a quando è morto.”
Poi Mr. Auger mi racconta di un altro personaggio, un formidabile batterista (Phill Simmons) che arriva sul palco quando già l'esibizione era in corso da un paio di minuti. La tolleranza del pubblico inglese è proverbiale e perdona spesso le eccentricità degli artisti, infatti nessuno ha fatto una piega. Solo che il batterista arrivava da una serata di bisboccia clamorosa e tendeva ad addormentarsi davanti alla batteria, alle cui spalle stava un gigantesco gong che a un certo punto avrebbe dovuto essere colpito con un tocco solo e leggero. Nel culmine di un pezzo armonioso e romantico, con il pubblico assorto dalla melodia, il batterista prende un'imbarcata da paura e cade dal seggiolino sbattendo fragorosamente contro il gong. Full-stop immediato dell'esecuzione e sguardi attoniti tra orchestrali e gente in sala. Il batterista si alza barcollante tra piatti e tamburi, rimane per un attimo in piedi e proclama a gran voce: “Ladies and Gentlemen, il pranzo è servito!”. Brian Auger ride ancora di gusto al ricordo di quella serata e precisa che Phill non fu nemmeno licenziato dato che il pubblico, abituato a quelle sue performances, lo amava.
Intanto fuori la bufera aumenta di intensità e io cerco di scusarmi per quella sorta di benvenuto poco socievole che la Valsesia sta offrendo al mito Auger. E' la prima volta che raggiunge questa parte di Italia, ma non trova niente di strano nel tempo: “E' come essere a casa..., un'estate inglese.”
Gli chiedo che tipo di musica offrirà al pubblico valsesiano, se ci saranno brani di repertorio, di quelli che lo hanno reso celebre. “Sarà un miscuglio delle mie cose che vanno bene per il mio stile di oggi. È molto funk come base. Poi ci saranno brani di repertorio, certo. Ma non è facile accontentare tutti. A volte mi succede di incontrare gente che mi rinfaccia di non avere eseguito quel determinato pezzo e mi dicono: ho fatto trecento chilometri di macchina per ascoltarlo, ma non l'hai eseguito!.. Capisco, ma abbiamo fatto più di quaranta dischi, come si fa a scegliere in modo da soddisfare tutti? Devo fare per forza una selezione fra gli anni.”
E della musica di oggi, un grande come Brian Auger, che pensa? Anche qui solita franchezza: “E' spazzatura. Le grandi etichette non stanno a discernere molto, l'importante è che il prodotto si venda. Producono plastica, non certo musica di qualità. Fanno dei video al limite del porno pur di vendere.”
Barons, che è uno che sa, mi racconterà poi che la tastiera Hammond ha delle sonorità tutte particolari, non facili da armonizzare con gli altri strumenti, ma il binomio Auger-Hammond è diventato famoso anche per questo e il concerto al Civico lo ha ampiamente dimostrato, ove ve ne fosse ancora bisogno. Un pubblico fatto non di giovanissimi, ma soprattutto da intenditori che hanno riempito il teatro scorticandosi le mani negli applausi a scena aperta, con standing ovation finale e pure il brindisi per festeggiare il settantesimo compleanno del Maestro in terra di Valsesia.
La formazione con cui si è presentato a Varallo era una formazione di stampo famigliare, composta dal figlio Karma alla batteria, dalla bella voce della figlia Savannah e dal bassista, vicino di casa, Andreas Geck, a sua volta in grado di strappare applausi e ovazioni con i suoi assolo che facevano contorcere sulla poltroncina non solo l'intenditore Barons, ma anche altri conoscitori della materia e, possiamo dire, che in sala ce n'erano a profusione.
Attualmente Brian Auger vive a Venice (California), a poche centinaia di metri da Santa Monica, dove abita il suo amico-rivale Kheit Emerson: “Siamo grandi amici. Lui viene spesso a prendermi, la sera; mi dice: andiamo a sentire quel tal complesso e beviamo una birra insieme,... si va, così. Ci troviamo bene, io lo stimo perchè è una persona corretta. Con gli altri musicisti non ho grandi frequentazioni, ma lui è ok... quindi non vedo niente di strano in questo. Mi piace stare in mezzo alla gente. Esiste solo una casta di persone che è l'umanità, dunque uno non può isolarsi perchè allora si chiama fuori dall'umanità”.
Gualtiero Bobbio