lunedì 28 settembre 2009

Brian Auger, la Leggenda


Intervista al famoso tastierista, in concerto a Varallo per l'Alpàa




Mi viene incontro caracollando risalendo le file di poltroncine del Civico. Si asciuga rivoli di sudore che, nonostante la bufera che tira fuori sulla piazza scaraventando qua e là cartelli e teloni, gli solcano il viso. L'aspetto non è dei più tranquillanti, anzi sarà la fama che lo precede o l'atmosfera che ci circonda, ma mi pare di dover affrontare un orso. La P.R. che ha predisposto l'incontro è agitata e un po' timorosa. Perfino l'amico Barons, inossidabile fan di Mr. Auger dalla notte dei tempi, mi trasmette l'emozione di trovarsi al cospetto del suo mito. Mi stringe la mano e mi indica un tavolino appartato in una saletta laterale del foyer. Forse percepisce la mia inquietudine e allora si allarga in un sorriso solare, di incoraggiamento. Scambio una rapida occhiata con Barons al quale ho rifilato la macchina fotografica con l'ordine (ordine?... meglio “supplica”) di immortalare l'evento e comincio a trafficare con il registratore con il segreto timore di venire fermato, nell'una e nell'altra operazione, da Mr. Auger. Invece Lui, Brian Auger in persona, non fa una piega e chiede come deve mettersi. Gli faccio gli auguri di buon compleanno, dato che compirà giusto settant'anni il giorno dopo. Ringrazia in italiano, stupisco e glielo dico. Il Mito si diverte a ricordare la sua prima discesa qui da noi, nella penisola: era il 1956 e da studente, essendo alle prese con latino e italiano da perfezionare, era sceso fino a Napoli in treno per poi risalire lungo la costa e la Francia in bicicletta tornando in Inghilterra per compiere, da buon anglosassone, uno di quei “riti di passaggio” tanto cari ai letterati dell'Ottocento. “Sono stato in collegio e là la mia cultura ha preso una piega classica e umanistica. Il Latino come lingua mi ha fatto scoprire nel vostro Paese quell'elemento mediterraneo fatto di ospitalità, di gentilezza e di allegria che nel mondo anglosassone, così riservato e composto, è impossibile trovare.”

Rinfrancato dalla disponibilità di Mr. Auger gli faccio notare che nei ruggenti Anni 60, il periodo che ha visto nascere le stellari leggende dei Beatles, dei Dylan, degli Hendrix, il suo nome veniva accostato a quello di un altro tastierista eccelso, Kheit Emerson: ma già all'epoca la sua fama era a livello mondiale. A sottolineare l'apprezzamento allungo la mano a sfiorargli la spalla manifestandogli l'intenzione di toccare “veramente” un mito. Scoppia in una risata che copre il fragore della bufera: “Non immaginavo di girare il mondo con questa professione. Sono autodidatta e ho cominciato a suonare a tre anni. Il mio papà aveva una pianola, di quelle con il rullo di carta e le note che muovevano i tasti, poi io ripetevo. Avevamo un grande armadio pieno di dischi e spartiti di grandi autori, da Behetoven a Rossini... Rossini mi piaceva moltissimo (e mi accenna un'aria strimpellando con le dita sul tavolo, sotto i miei occhi, parlandomi di ottave e chiavi musicali..., a me che, pronunciare “bemolle” fa venire in mente tutt'al più una disfunzione sessuale), e posso dire che ha sviluppato in me il senso dell'armonia. E poi il mio fratello più grande (vengo da una famiglia di sei fratelli) aveva una collezione di dischi jazz, le mie sorelle avevano quelli di Nat King Cole, di Bing Crosby, di Frank Sinatra... Però a me affascinava il Jazz.”

Non fa mistero di avere tratto ispirazione da tutti i grandi della musica, da Gleen Miller a Lionel Hampton, da Benny Goodman a Duke Ellington. Anzi, proprio un disco di Ellington riascoltato innumerevoli volte, lo portò alla convinzione di dover trasmettere al pubblico “l'essenza del sentimento”. “Se chi ti ascolta non capisce tanto vale suonare in casa, al chiuso. Io ho cercato di capire e questo mi ha permesso di andare a ritroso, di andare a miscelare rock and roll e boogie col jazz, alla ricerca di un'armonia che trasmettesse qualcosa negli ascoltatori. Questo lo abbiamo sperimentato con i Trinity e con la voce di Julie Driscoll, eravamo negli Anni 70. Julie si ispirava a Nina Simone... Mi ricordo di avere visto un'intervista al grande Duke Ellington dove gli chiedevano quale genere di musica preferisse e lui rispose che conosceva solo due tipi di musica: quella buona e quella non-buona. Io spero di fare, e di avere fatto, solo musica buona.”

Di Mr. Auger si conoscono innumerevoli collaborazioni di altissimo livello, anche con nostri artisti italiani (Mina, Morandi e ultimamente Zucchero. Lui trova straordinariamente bravo Pino Daniele), ma quando gli chiedo di raccontarmi qualche episodio della sua fantasmagorica vita di scena, non ha esitazioni e, mentre Barons fa lampeggiare il flash come un forsennato, mi parla del primo incontro con Jimmy Hendrix. “Avevo già predisposto il complesso per una serie di concerti a Londra, dove volevo sperimentate questo concetto di miscuglio tra jazz e rock. Un amico mi propone di far esibire con noi Hendrix, anche se il suo manager non andava d'accordo con il nostro, ma il suo era un tipo strano perchè poi ho avuto ragione dato che gli ha fregato un milione. Comunque, la prima sera, arriva Jimmy sul palco, ci salutiamo e gli chiedo se vuol suonare con noi, lui dice di sì e mi chiede se posso fare un accordo come quello che mi accenna. Mai sentito, nè provato prima. Facciamo il pezzo e alla fine Eric Clapton, che era con me, mi dice “Sentito questo, cosa ci sto a fare qui? Per me è finita. Meglio che vado a casa”... Capito? Clapton voleva stracciare gli spartiti! Tieni presente che tutti questi chitarristi inglesi, questi bluesmen, sono strettamente legati alle loro radici, ma con Jimmy, con quella sua voce..., mai sentito niente del genere...Siamo stati grandi amici, fino a quando è morto.”

Poi Mr. Auger mi racconta di un altro personaggio, un formidabile batterista (Phill Simmons) che arriva sul palco quando già l'esibizione era in corso da un paio di minuti. La tolleranza del pubblico inglese è proverbiale e perdona spesso le eccentricità degli artisti, infatti nessuno ha fatto una piega. Solo che il batterista arrivava da una serata di bisboccia clamorosa e tendeva ad addormentarsi davanti alla batteria, alle cui spalle stava un gigantesco gong che a un certo punto avrebbe dovuto essere colpito con un tocco solo e leggero. Nel culmine di un pezzo armonioso e romantico, con il pubblico assorto dalla melodia, il batterista prende un'imbarcata da paura e cade dal seggiolino sbattendo fragorosamente contro il gong. Full-stop immediato dell'esecuzione e sguardi attoniti tra orchestrali e gente in sala. Il batterista si alza barcollante tra piatti e tamburi, rimane per un attimo in piedi e proclama a gran voce: “Ladies and Gentlemen, il pranzo è servito!”. Brian Auger ride ancora di gusto al ricordo di quella serata e precisa che Phill non fu nemmeno licenziato dato che il pubblico, abituato a quelle sue performances, lo amava.

Intanto fuori la bufera aumenta di intensità e io cerco di scusarmi per quella sorta di benvenuto poco socievole che la Valsesia sta offrendo al mito Auger. E' la prima volta che raggiunge questa parte di Italia, ma non trova niente di strano nel tempo: “E' come essere a casa..., un'estate inglese.”

Gli chiedo che tipo di musica offrirà al pubblico valsesiano, se ci saranno brani di repertorio, di quelli che lo hanno reso celebre. “Sarà un miscuglio delle mie cose che vanno bene per il mio stile di oggi. È molto funk come base. Poi ci saranno brani di repertorio, certo. Ma non è facile accontentare tutti. A volte mi succede di incontrare gente che mi rinfaccia di non avere eseguito quel determinato pezzo e mi dicono: ho fatto trecento chilometri di macchina per ascoltarlo, ma non l'hai eseguito!.. Capisco, ma abbiamo fatto più di quaranta dischi, come si fa a scegliere in modo da soddisfare tutti? Devo fare per forza una selezione fra gli anni.”

E della musica di oggi, un grande come Brian Auger, che pensa? Anche qui solita franchezza: “E' spazzatura. Le grandi etichette non stanno a discernere molto, l'importante è che il prodotto si venda. Producono plastica, non certo musica di qualità. Fanno dei video al limite del porno pur di vendere.”

Barons, che è uno che sa, mi racconterà poi che la tastiera Hammond ha delle sonorità tutte particolari, non facili da armonizzare con gli altri strumenti, ma il binomio Auger-Hammond è diventato famoso anche per questo e il concerto al Civico lo ha ampiamente dimostrato, ove ve ne fosse ancora bisogno. Un pubblico fatto non di giovanissimi, ma soprattutto da intenditori che hanno riempito il teatro scorticandosi le mani negli applausi a scena aperta, con standing ovation finale e pure il brindisi per festeggiare il settantesimo compleanno del Maestro in terra di Valsesia.

La formazione con cui si è presentato a Varallo era una formazione di stampo famigliare, composta dal figlio Karma alla batteria, dalla bella voce della figlia Savannah e dal bassista, vicino di casa, Andreas Geck, a sua volta in grado di strappare applausi e ovazioni con i suoi assolo che facevano contorcere sulla poltroncina non solo l'intenditore Barons, ma anche altri conoscitori della materia e, possiamo dire, che in sala ce n'erano a profusione.

Attualmente Brian Auger vive a Venice (California), a poche centinaia di metri da Santa Monica, dove abita il suo amico-rivale Kheit Emerson: “Siamo grandi amici. Lui viene spesso a prendermi, la sera; mi dice: andiamo a sentire quel tal complesso e beviamo una birra insieme,... si va, così. Ci troviamo bene, io lo stimo perchè è una persona corretta. Con gli altri musicisti non ho grandi frequentazioni, ma lui è ok... quindi non vedo niente di strano in questo. Mi piace stare in mezzo alla gente. Esiste solo una casta di persone che è l'umanità, dunque uno non può isolarsi perchè allora si chiama fuori dall'umanità”.

Gualtiero Bobbio


1 commento:

  1. Buongiorno Direttore,
    Bella intervista con un Grandissimo della musica... Complimenti
    PS: Belle le foto... Complimenti al fotografo

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