Giacomo Preti da Boccioleto: temperamento focoso e cuore generoso
il Giacomaccio
Dalla rissa all'osteria di Varallo agli Statuti Valsesiani
“Uomo di carnagione bianchissima, alto e tarchiato nella persona, sicchè popolarmente veniva chiamato il Giacomaccio. Avendo militato per Francia, trovossi alla battaglia di Melegnano, ed aveva preso un fare soldatesco e prepotente.” Questa la decrizione che Federico Tonetti, nella sua “Storia della Valsesia”, offre di Giacomo Preti da Boccioleto, più o meno coincidente con quella di un altro storico valsesiano, Pietro Galloni. Ma chi era veramente?
Nato intorno al 1480 in Boccioleto da una famiglia piuttosto in vista, tanto da essere citata nello statuto del 24 agosto 1305 fatto a Scopa contro Dolcino, Giacomo Preti, tanto per non smentire l'origine valsesiana, prende ben presto la via della Francia in cerca di fortuna. Probabilmente non ha ne arte nè parte: l'unica carta che può tentare di giocare è quella del fisico aitante, per cui non gli è difficile farsi accogliere in un esercito, abbracciando così la carriera militare. Partecipa alla battaglia di Melegnano (13 – 14 settembre 1515) in cui viene fatto prigioniero dai Francesi Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro. Non è dato di sapere quale grado abbia raggiunto nella vita militare, ma la tradizione riporta quello di capitano. La cosa certa è che i suoi modi rudi, la postura decisa al limite della strafottenza, la voce avvezza a sbraitare ordini contribuirono, insieme alla massiccia corporatura, ad alimentare la fama del soldataccio sbrigativo e truculento. Un'immagine che forse in altre zone non avrebbe deposto completamente a sua favore, ma che in terra di Valsesia, dove Giacomo Preti aveva deciso di tornare a riposare le stanche membra, gli era valsa notevole considerazione e rispetto: una gloria nazionale, insomma. E lui non se ne adontava affatto, anzi soffiava sul fuoco a ogni occasione magnificando le proprie gesta, quando con una certa frequenza veniva invitato ad abbondanti banchetti e libagioni in suo onore, proprio per sentir raccontare dalla viva voce del protagonista imprese al limite dell'immaginabile. Sicchè anche l'appellativo di “Giacomaccio” tornava utile per incutere un certo timore reverenziale e contribuiva ad alimentare la fama dell'uomo duro e puro, senza macchia nè paura che era meglio avere come amico che nemico. Il personaggio, insomma, incontrava il favore del pubblico dell'Alta Valle, incline alla rudezza dei modi e alle “maniere ardite e franche”. Possiamo immaginare quanto l'alone della leggenda tornasse gradito pure al nostro che ormai era perfettamente conscio di essere entrato nei cuori dei compaesani e degli abitanti dei villaggi vicini. La sensazione della invincibilità e la consapevolezza di poter fare il bello e il brutto tempo, senza dover dare troppe spiegazioni, sfociarono ben presto in un atteggiamento prepotente che non ammetteva repliche.
Non la pensavano allo stesso modo i Varallesi con i loro vicini, cioè i consiglieri dei paesi intorno a Varallo che in pratica detenevano il potere decisionale impedendo ai consiglieri dell'Alta Valle di difendere i propri diritti e le proprie ragioni. Una questione di Maggioranza e Minoranza, di Governo e Opposizione, insomma, dove se non hai i numeri, non c'è verso di far passare una minima proposta.
Un giorno Giacomaccio, sceso a Varallo, stava discutendo con alcuni dei vicini in un'osteria su argomenti di pubblica amministrazione. Abituato a incutere rispetto e timore, quando alzò la voce si trovò di fronte alla decisa replica degli interlocutori. La qual cosa gli fece saltare la mosca al naso e passò alle minacce, perdendo le staffe e proferendo chissà quali parole. Varallesi e vicini lo mandarono a stendere senza tanti complimenti, dimostrando di non tenere in alcun conto le passate gloriose gesta dell'eroe di Boccioleto, anzi insolentendolo oltre ogni limite. Non avvezzo a quel genere di trattamento, il Giacomaccio se la legò al dito e decise che l'avrebbe fatta pagare cara ai Varallesi quell'onta che aveva dovuto subire in una pubblica osteria.
Tonetti dice che in parte spinto dalla vivacità del suo carattere, in parte dall'amore del pubblico bene e molto di più dall'astio, che lo rodeva, si mise segretamente a tessere le fila di una estesa e ben ordinata congiura con i capi e i principali uomini degli altri paesi. Uno di costoro era Giovanni Pietro Vinzio di Valduggia, suo parente, che avrebbe dovuto assalire Varallo da sud, mentre Giacomaccio coi suoi l'avrebbe attaccata da nord.
Predisposti i piani di assalto a Varallo, una domenica mattina, alla fine della messa, Giacomaccio salta sul tavolo di pietra che sta davanti alla chiesa di Boccioleto e che serviva a rendere pubblici gli ordini del consiglio comunale, e si mette ad arringare la folla con “soldatesca baldanza” parlando di patria in pericolo, del dovere di pensare alla sua salvezza, dell'infedeltà dei vicini di Varallo tendenti a imporre una sorta di tirannide a scapito dell'Alta Valle, della loro cupidigia e della manifesta volontà di arrogarsi ogni potere privando il popolo dei normali diritti, di volere esautorare il Consiglio Generale della Valle imponendo il loro punto di vista senza ascoltare i consoli dei paesi di montagna e i sindaci delle valli; sostiene che non si può più essere ingiuriati e subire le angherie come capitato a lui medesimo e che viveri e granaglie destinati ai montanari siano intercettati. Era giunta l'ora insomma della riscossa e di liberare il paese dal malgoverno di gente perfida e litigiosa. L'ora della Giustizia chiamava ad armarsi e a partire contro Varallo.
L'eco del comizio del Giacomaccio corse per tutte le valli e ognuno era convinto d'aver subito quelle ingiustizie: occorreva vendicarsi. Ben presto Giacomaccio si ritrova con un esercito di circa duemila uomini disposti a seguirlo. Si avvia alla volta di Varallo e il 18 ottobre 1518 giunge a Vocca e Valmaggia. Pone l'accampamento e col favore della notte e con un centinaio di uomini si spinge fino al ponte di Varallo, ma le campane dànno l'allarme e i Varallesi reagiscono respingendo gli assalitori. Visto fallito l'intento di penetrare nell'abitato, forse frustrato, ritirandosi appicca il fuoco ad alcune abitazioni di Varallo Vecchio. Raggiunge gli accampamenti e rimane per due giorni in attesa di notizie del Vinzio che doveva giungere dalla bassa valle. Nel frattempo i Varallesi, riavutisi dalla spiacevole sorpresa, cercano di riorganizzarsi e corrono ad armarsi ricuorandosi a vicenda, perchè il timore non è ancora passato e la consistenza del nemico non è nota. L'incertezza regnava sovrana. Il Santuario, in quel periodo in costruzione, diventa meta di pellegrinaggi e processioni votive. Insomma, non si sa quali pesci pigliare.
A questo punto vale forse la pena ricordare che il Fassola ci racconta un aneddoto che tenderebbe a ridicolizzare tutta l'impresa dei Valligiani contro Varallo. Mentre fervevano i dibattiti sul modo più opportuno di intervenire, una vecchierella propose un “singolare stratagemma” per liberare dal pericolo incombente la città. Si radunarono dalle terre circostanti tutte le capre e le pecore che fu possibile; attaccate delle micce alle corna e alla testa degli animali, li condussero in vari branchi su per i boschi di Valmaggia. Scesa la notte, mentre gli uomini del Giacomaccio riposavano, dato fuoco alle micce, spinsero le greggi giù per la montagna incalzandoli con urla serlvagge e sparacchiando all'impazzata. I Valligiani destati improvvisamente dal sonno, si videro assaliti da tutti quei fuochi che sembravano altrettanti archibugieri forsennati. La fuga fu inevitabile in un caos indemoniato e, dice il Fassola, “nè si fermarono che alle case loro”. Il giorno dopo, incontrandosi, si raccontavano l'un l'altro il grande pericolo scampato, ma quando si svelò la verità, quegli uomini arditi che avevano osato attaccare Varallo, non vi credettero. Ma quando l'inconfutabilità degli eventi apparve in tutta la sua beffa, l'ira e la vergogna montarono talmente che avrebbero ripreso volentieri le armi e l'impresa, se nel frattempo non fosse giunta notizia che il Vinzio era stato sbaragliato alle porte di Varallo.
Stemperati i bollenti spiriti, abbandonato ogni desiderio dei vendetta, Giacomo Preti si dedicò per il resto della vita al bene della patria. Dice Galloni: “ Svestita la tunica del guerriero, indossò la toga del magistrato; cuoprì molte onorevoli cariche e fu tra quei Deputati che chiesero e ottennero dal Duca di Milano Francesco II Sforza-Visconti vantaggiosissima ampliazione dei capitoli agli Statuti Valsesiani”.
Al Sacro Monte, nella cappella detta del Calvario, tra i formidabili personaggi ritratti da Gaudenzio Ferrari, potrebbe essere individuabile il Giacomaccio. Uso volutamente il condizionale perchè è solo un'ipotesi, una bella ipotesi.
Alla ricerca dei personaggi negli affreschi del Sacro Monte
Sono davvero rappresentati nelle opere dei Maestri che lavorarono alle cappelle? Oppure sono solo dicerie?
Abbiamo intervistato in proposito alcuni di coloro che si sono dedicati alla Storia e all'Arte della Valsesia. Non esistono elementi che comprovino la certezza dei ritratti, solo ipotesi.
Prof. Giacomo Gagliardini
L'attenzione si concentra sulla Cappella n° 38 del Sacro Monte, quella della Crocifissione. Intanto, se fosse comprovata la raffigurazione dei personaggi storici valsesiani quali Giacomo Preti e Alberto Giordano, bisognerebbe chiedersi se stiamo parlando solo degli affreschi oppure se prendiamo in esame pure le sculture, perchè non è detto che esista anche tale possibilità. Non c'è alcun riferimento ben definito che riguardi i ritratti, sono solo “si dice”, delle ipotesi, belle ipotesi, su cui si potrebbero aprire degli approfondimenti. Da un punto di vista storico, se la vicenda del Giacomaccio è databile al 1518 e Gaudenzio Ferrari ha lavorato alla cappella fino intorno al 1520, potrebbe anche starci che in omaggio al personaggio si sia voluto dedicare una specie di ricordo, ma si può anche ritenere che il lasso di tempo intercorso tra le imprese di Giacomo Preti e l'esecuzione del dipinto sia troppo breve per dover consegnare alla memoria dei posteri una raffigurazione epica: in sostanza il Giacomaccio era ancora vivo e vegeto, operante nell'Alta Valle, per entrare a far parte di una certa “mitologia valsesiana”. Senza considerare che i Varallesi non avevano proprio niente da celebrare di un personaggio che, nel corso della sua vita pubblica, mai aveva fatto mistero di come la pensasse su di loro e che, anzi, aveva costituito un serio pericolo per la città fino ad appiccare il fuoco a una parte di essa. Venendo agli affreschi è un problema individuare la porzione dedicata a detti personaggi. Perchè quelli sulla parete accanto all'entrata, piuttosto che non quelli sulle pareti laterali, se non su quella di fondo? Soltanto Gaudenzio Ferrari in persona avrebbe potuto toglierci dall'imbarazzo lasciando una descrizione della rappresentazione, ma non c'è. E allora tutto diventa interpretabile a seconda di ciò che si vuol dimostrare o sostenere. Diciamo che è bello pensare che l'artista abbia voluto ritrarre dei personaggi balzati all'onore della cronaca negli anni in cui era tornato a lavorare al Sacro Monte. Sia del Giacomaccio come di Alberto Giordano abbiamo delle descrizioni sommarie tracciate dal Tonetti che a sua volta le deve avere desunte dal Lana: entrambi vengono definiti di grande corporatura, robusti e chiaramente in contrasto con lo stereotipo del Valsesiano medio, quindi qualsiasi figura degli affreschi che sovrasta le altre, potrebbe essere quella che ci interessa. Ma continuiamo a restare nel vago.
Dr. Gabriele Federici
“Non ho studiato nel dettaglio la materia, quindi esprimo un parere del tutto personale, basandomi su supposizioni storiche, per altro già enunciate da altri. I committenti delle cappelle erano in prevalenza notabili di Varallo. Gli avvenimenti imputati a Giacomo Preti e ad Alberto Giordano erano ancora piuttosto freschi nelle menti di questi notabili e nel popolo varallese, ragion per cui mi torna difficile accettare che personaggi, immagino esecrati nel giudizio comune, siano stati immortalati da Gaudenzio proprio nella cappella 38. In più, ritratti in atteggiamento da saggi, con un'aura ieratica, quasi santificante. Storicamente saremmo di fronte a una paradossale interpretazione di fatti e personaggi. Oppure si potrebbe supporre che Gaudenzio, influenzato da quei recenti accadimenti, con una certa inclinazione da cronista (poco probabile, però) abbia voluto ricordare i protagonisti degli attacchi alla città. Ma questi costituivano un aspetto molto negativo, quindi non mi spiego la serafica espressione di cui sono dotate le figure che occupano le pareti della cappella. Quindi propendo per la versione della diceria che non so da dove tragga origini. Si tratta comunque di una versione popolare che conserva un certo fascino, ma storicamente e artisticamente non sta in piedi”.
Prof. Casimiro Debiaggi
Avendo dedicato parecchio del suo tempo a studiare il Sacro Monte e a scriverne, il prof. Debiaggi propende decisamente per la teoria della diceria. Il proliferare delle innumerevoli “guide al Sacro Monte” che sono state date alle stampe nel corso dei secoli sono, nella sostanza, una copia l'una dell'altra. Le fonti di ispirazione e di ricerca sono le precedenti; ora ci si può imbattere in un autore che conosca, oppure approfondisca maggiormente un argomento rispetto a un altro, ma differenze fondamentali tali da costituire un documento originale, preciso e dettagliato non ne ha mai trovate. Alla fine sono tutte, più o meno, delle ripetizioni. A ingigantire la leggenda dei ritratti del Giacomaccio, di Alberto Giordano e del Vinzio ha indubbiamente contribuito lo storico Fassola che ha voluto individuare quei personaggi sulle pareti della cappella 38. Come del resto ne ha individuati altri, dall'imperatore Carlo V al nobile novarese Tornielli. Dal Fassola in poi è stato tutto un divulgarsi di false, o fantasiose, interpretazioni. Anche il prof. Debiaggi sostiene che i notabili varallesi, committenti dell'opera, non avevano proprio nulla da far celebrare riguardo a personaggi che, invece, avevano recato dànno e pericolo alla città. Non esistevano, insomma, le premesse affinchè Gaudenzio immortalasse, tra tante figure, proprio quelle che avevano da poco rappresentato una minaccia alla stabilità del governo cittadino e della valle. Pur riconoscendo al Fassola una straordinaria vicinanza nel tempo agli eventi (infatti scriveva nel secolo successivo agli avvenimenti storici riferiti a Giacomaccio e Giordano, quindi nel 1600), la logica ci dice che dovette avvalersi anche lui, Fassola, di fonti piuttosto approssimative e non basate su testimonianze dirette, il che rende aleatoria qualsiasi interpretazione. In sostanza siamo al cospetto di una bella favola, intrigante e compatibile con gli affreschi di Gaudenzio, ma pur sempre una favola.
Dr.sa Elena De Filippis
In qualità di storico dell'Arte e, soprattutto, di Direttore del Sacro Monte, Elena De Filippis pare in netta controtendenza rispetto ai pareri espressi più sopra. Il testo di Giovanni Battista Fassola non solo è veritiero, ma indica con precisione i personaggi raffigurati. Ci vien fatto notare che le figure sulle pareti laterali non hanno alcunchè in comune con quelle sulla parete di fondo, una perfetta continuazione della scenografia “scolpita”. Cioè: la parete di fondo, secondo De Filippis, si amalgama perfettamente con le sculture in primo piano, come se si trattasse di una sola, grande scenografia. Le pareti laterali sono servite a Gaudenzio per affrescarvi altri temi, altri personaggi, ma fuori dal contesto narrativo della crocifissione. Potremmo dire, oggi, una sorta di spazio riservato alle dediche. E in quegli spazi Gaudenzio ci ha messo i personaggi suoi contemporanei ad assistere allo spettacolo della morte di Cristo, quindi non con funzione di “partecipanti alla scena”, ma di “spettatori”. Scontati dunque quelli che l'attualità del tempo considerava protagonisti d'ufficio e i maggiorenti della comunità, è plausibile che Gaudenzio avesse dato spazio a personaggi della cronaca locale, raggruppati nella parete a sinistra della bussola trasparente, posata per facilitare la visione intera della cappella. Così Giacomaccio, Giordano e Vinzio, armati di archibugio o in procinto di caricarlo, osservano la scena dallo stesso punto di vista del visitatore, irsuti nelle loro capigliature e barbe biondo-rossicce, nell'atto di “portare” la minaccia. Secondo l'interpretazione di Elena De Filippis, dunque, lo storico Giovanni Battista Fassola non è affatto l'origine di tutti i mali, cioè delle dicerie che hanno imperversato lungo cinque secoli, ma una fonte di notizie che ha una sua valenza pure sul piano storico-cronistico della valle. Così come Gaudenzio che, contemporaneo dei tre capi-popolo, può anche essere che li abbia visti, o quanto meno che se li sia fatti descrivere in modo da poterli raffigurare in atteggiamento tutt'altro che remissivo e tranquillizzante. In perfetta sintonia con la loro nomea. Ma si tratta, sottolinea De Filippis, soltanto di una supposizione, perchè non esiste nulla che comprovi le ipotetiche intenzioni di Gaudenzio in proposito. Anzi il Direttore della Riserva del Sacro Monte precisa di non credere affatto alla diceria... è una bella diceria e basta.
G. Bobbio